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non aprire la domanda..non farloooo?
xke l hai aperta?cmq ora ke sei qui mi scrivi la prosa di palazzeschi,chi sono?,quella di marinetti,dominare e qll di capmana 3 fiorentine camminavano
10 PUNTI AL MIGLIORE!!!
10 risposte
- Anonimo1 decennio faRisposta preferita
Roma di Palazzeschi
Notturno in piazza San Pietro inizia con questi versi:
Corpi e ombre
per la marmorea foresta
in una notte di luna.
Uscì nel 1945, con una illustrazione di Mino Maccari.
Incipit di Novembre, poesia pubblicata nel 1946:
Dei giovani e dei vecchi
si raggruppano
fra le rovine calde di Roma
su cui i platani lasciano cadere
con frusciare di carta
le loro foglie dorate.
Una poesia ha come titolo Roma. Appartiene alla raccolta Via delle cento stelle, edita nel 1972:
Un giardino di fiori superbi
sormontati ciascheduno da una croce
e che vi prospera
da venti secoli in superficie;
Alla poesia Il Palatino, del 1946, appartengono questi versi:
Bevute dal sole
le pietre sono bianche
come tombe anonime e deserte
riarse
e le fronde palpitano leggere
di un’aspirazione celeste.
«Nella città santa _ scrisse Palazzeschi in Roma, Vallecchi, 1953 pp. 135 _ la santità non esclude mai la bellezza che tenne d’occhio attentamente e con palese interesse, fino alle più remote lontananze delle piramidi e la sfinge, conservando di tutte piacevolissime testimonianze. E nella lotta con la bellezza fu sempre la santità a cedere, a trovare saggiamente il modo di vivere.»
In Via Appia Antica, pubblicata nel 1959, Palazzeschi narra di essersi addormentato riverso sull’erba, immerso nella natura e nelle memorie del passato. In questo luogo aperto e solenne, descritto con toni che, nei languori estetizzanti, ricordano Il vestibolo silvano del Libro Primo di Maia di d’Annunzio, al suo risveglio Palazzeschi osservò che:
Il pino solitario
dal tronco colossale
produceva
un baldacchino regale
altissimo
sopra la nostra testa
e il verde della cupola
immensa
dorato dal sole in discesa
nell’aria ferma
dava un tocco di solennità
millenaria
al signore di pietra grigia
e alla mia maraviglia.
Un tripudio di luci, nei versi di Ponte Garibaldi, luogo familiare e non lontano dalla casa romana e dall’Isola Tiberina, nel cui Ospedale Palazzeschi morì il 17 agosto 1974:
Quando il sole si nasconde
dietro la cupola di San Pietro
sembra volerla incendiare
giungendo ad allungare
con mano voluttuosa
morbidamente
una carezza rosa
alla montagna azzurra.
[…]
Le vecchie pietre
del Ponte Palatino
e dell’Isola Tiberina
le fatidiche pietre
della vetusta Roma
in quella luce
hanno un palpito lieve
di nostalgia.
Venezia di Palazzeschi
Nel 1955 usciva, per i tipi All’insegna del pesce d’oro, il Viaggio sentimentale di Palazzeschi. Conteneva anche la poesia Santa Maria della Salute, più tardi compresa nel volume Cuor mio, con numerose varianti:
Acqua.
Voltepilastricolonnearcate
sorgono in circolo
dallo specchio di un Canale
per sostenere Angeli e Santi
fiori d’acqua
per un paradisiaco baccanale.
Il secondo è un verso bizzarro e barocco che esprime la continuità delle forme plastiche del complesso architettonico che sorge dall’acqua immota. Lirica di ambienti immobili, statici, privi di umane presenze e in cui si mescolano ingredienti diversi eppure affini, la poesia Sacca della Misericordia fu ampliata e corretta in Cuor mio:
Specchio quadrato
dell’acqua densa e smeraldina
colore prediletto del pittore di Verona
nella mattina di Gennaio
gelata e limpida
sento di vivere in un cristallo.
Palazzeschi acquistò una casa a Venezia _ teatro della fantastica invenzione del suo romanzo Il Doge (1967) _ al numero 4422 di Fondamenta del Rimedio, a poche decine di metri da piazza San Marco. Si trasferì poi a Cannareggio 4263, in Calle del Forno, nei pressi della Ca’ d’Oro. Indossava sovente il cappello di paglia e la maglietta a larghe righe dei gondolieri e divenne uno dei protagonisti del premio Campiello. Sulle pareti della casa veneziana aveva appeso una collezione di piccoli rami a forma di pesce e sopra un tavolino disposto una raccolta di grosse conchiglie. Per Palazzeschi Venezia era «un miracolo della fantasia, irreale nella realtà.» I versi che dedica a Venezia sembrano una composizione geometrica, immobile nel tempo.
Sul “Corriere d’informazione ” del 18-19 aprile 1959 uscì la poesia San Lazzaro degli Armeni:
Isoletta venuta dall’Oriente
galleggiando
e rimasta incantata
davanti a Venezia:
Palazzeschi restò sempre fedele al verso libero, che fu tra i primi a adottare, esiliando le catene della rima. Nei suoi versi, anche in quelli composti in tarda età, rimase un sottofondo crepuscolare di toni stanchi e malinconici: ambienti vuoti e scenografie stilizzate, in cui riverberare il suo mondo interiore.
Palazzeschi e la campagna toscana
«Proponendomi il massimo della semplicità nell’esprimermi; delle notazioni semplici, delle pure linee, ispirate a soggetti campestri un po’ estatici e in cui l’umanità non prendeva maggior posto di un albero, di una statua o di una fonte. Alberi su vie di campagna, ville coi loro parchi un po’ abbandonati e misteriosi, piccoli santuari, tabernacoli e chiese, un po’ abbandonate anche quelle, folle mute. Mi pareva che in quei luoghi appartati, solitari e silenziosi, si fosse rifugiato lo spirito umano e la poesia. Dopo tanta magniloquenza e magnificenza di espressione vedevo la poesia come il filo chiaro dell’acqua che scaturiva da una sorgente.» Con queste parole Palazzeschi ricordava il tempo di stesura del suo primo opuscolo di versi, I cavalli bianchi, edito nel 1905 in cento esemplari e a spese dell’autore. (Palazzeschi allo specchio, in “Omnibus”, 29 maggio 1937)
In Toscana, tra Ottocento e Novecento, fioriva la seconda generazione dei macchiaoli, ricca di geniali varianti stilistiche, aperta agli influssi dell’Impressionismo francese e del Naturalismo europeo. All’ultimo piano dell’Accademia fiorentina, nello studio Giovanni Fattori, si ritrovavano Ulvi Liegi, Lorenzo Viani, Plinio Nomellini e tanti altri. Firenze era contigua ad una campagna che offriva straordinari paesaggi, solari o umidi, ridenti o melanconici, da riprodurre in coloriture compatte o con la nuova tecnica del divisionismo: case su colline, buoi e aratri, chiostri, cimiteri, cipressi, primi piani sfondati verso la fonte naturale della luce, cortili e pergolati, meste chiese solitarie.
Guido Colucci Villa Gori, acquaforte, c. 1909
Negli stessi anni, Firenze era anche la sofisticata capitale della scena letteraria italiana: Soffici, Papini, Prezzolini, Palazzeschi. Nascevano le riviste critiche e letterarie, cardini del rinnovamento culturale italiano.
Da I cavalli bianchi estraiamo l’incipit della poesia Il cancello:
L’oscuro viale dai mille cipressi
che porta al cancello del grande piazzale
è aperto a la gente.
Soltanto il cancello non s’apre.
Singolarità del suo mondo poetico, Palazzeschi rende irreale il reale, sfuma il senso del tempo, dilata l’aria intorno ad oggetti immobili, crea scenografie stilizzate e prive di chiaroscuri. Nei versi di Palazzeschi si ritrova il gusto sobrio delle incisioni in bianco e nero dei post macchiaioli. Come in una filastrocca, egli narra la storia, surreale, staccata dalla vita sociale e bloccata nel tempo, delle tre vecchie Ara, Mara, Amara, oramai al confine della vita:
In fondo a la china
fra gli alti cipressi
v’è un piccolo prato.
Si stanno in quell’ombra
tre vecchie giocando coi dadi.
Non alzan la testa un istante,
non cambian di posto un sol giorno.
Le tre vecchine stilizzate sono un presagio delle Sorelle Materassi, sfiorite senza aver gustato la giovinezza. In questa vecchiaia statica Palazzeschi esprime il suo personalissimo status crepuscolare di esclusione dalla vita degli altri, in una rarefatta atmosfera di morte e con toni di intellettuale lucidità: “buffo”, “pagliaccio”, “saltimbanco”… alla ricerca di una personale identità, stilistica e umana, Palazzeschi si definisce con questi termini strampalati, ironici e grotteschi, che nascono dalla sua inquietudine e deformano la realtà. Detestava il “buon senso comune” e talvolta esprimeva con un linguaggio caustico la sua rivolta contro le tradizioni sociali.
Firenze di Palazzeschi
«Avevo tre anni. Tre anni e un amore già: la finestra, tutte le finestre. Tre anni, e già un odio: la minestra, tutte le minestre.» Con queste parole egli rievocava i ricordi della prima infanzia, a Firenze (Una casa per me, in “Corriere della Sera”, 7 aprile 1926). A cinque anni, una sera, gli venne in capo la matta idea di accendere una fila di cerini, infissi sul bordo della finestra e per poco non mandò la casa in fumo. Era un presagio dell’Incendiario, irridente e disincantato? Molti anni dopo, prese «tante lettere e letterine, virgolette punti e linee, strumenti non senza pericolo anch’essi da maneggiare, e fattone sillabe e parole, non vincendo alla tentazione, volli metterli in fila, come più mi piaceva e pareva che stessero bene; una fila poco più lunga e non meno bizzarra. E come allora, per un irresistibile capriccio, mi piacque di vedere anch’essa accesa nell’aria; una luce non più alta, né durevole forse, di quella dei cerini nella sera dell’altra primavera.» (Stampe dell’800, 1932).
Tra i versi fiorentini abbiamo scelto questi, tratti da Monte Ceceri, nella redazione pubblicata in Cuor mio, una raccolta di poesie scritte nell’arco di venticinque anni, pubblicata da Mondadori nel 1968:
Nella conca leggiadra
la città fuma.
Torri e cupole
emergono
nei vapori densi
d’un tramonto di rosa.
Tremule spuntano
le prime gemme della sera
nella lontananza
e un giro di montagne
già viola
vi formano intorno
il rito della bellezza:
Firenze.
Nella galleria poetica di Palazzeschi c’è anche questo abbandono lirico, esaltato dalla lontananza dalla città natale, questa variante c
- 1 decennio fa
la prosa????....ok...
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FATTO!!!!!!!
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- Anonimo1 decennio fa
hahahaha ma bravo...
- Anonimo1 decennio fa
sono curiosa ma non scema! ahaha!
- Anonimo1 decennio fa
ahaha scordatelo!
- Anonimo1 decennio fa
Forse sono un poeta?
No, certo.
La penna della mia anima
scrive solo una strana parola:
"follia".
Dunque sono un pittore?
Neanche.
La tavolozza della mia anima ha solo un colore:
"malinconia".
Allora sono un musicista?
Nemmeno.
Nella tastiera della mia anima
c'è solo una nota:
"nostalgia".
Dunque... che cosa sono?
Metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente
Chi sono?
L'acrobata della mia anima.
qst è la parafrasi...
so solo qst :)